lunedì 18 giugno 2012

La macchinina



Mi è ritornato alla mente, non so perchè, un fatto che mi è accaduto una delle prime volte che sono arrivato per le vacanze in Italia nella città di mia madre.
Forse perchè i miei occhi e pensieri erano pieni di spazi e deserti e se uno scartava
di lato poco accadeva. Le piste si facevano passandoci, le strade si formavano compattando, passo dopo passo, gomma dopo gomma un percorso sempre più battuto che diventava familiare. Certo c'erano anche i nastri asfaltati. Ma quelli erano dedicati alla capitale, all'aeroporto, alla diga e per qualche chilometro vicino alle frontiere.
Mia madre mi portò a prendere un gelato ai Giardini Pubblici della città. Uno spazio verde, nato con i Farnese e poi arrivato tra le mani della Duchessa, che si adagia sulla sponda occidentale di quello che noi da sempre ci ostiniamo a chiamare fiume.
Ebbene, in quel giardino immenso, vicino al chiostro dei gelati, granite e granelle stazionava un vecchio signore che aveva un parco macchinine a pedali. Si dividevano in due categorie, le automobiline classiche, rigorosamente in metallo e i grilli. I secondi erano utilizzati da quelli che volevano fare le gare tra di loro nel lungo rettilineo che andava dalla fontana al palazzo. Non era un normale pedalare, avevano un meccanismo che ricordava le macchine tessili o gli organetti, si spingevano i piedi in avanti paralleli.
Io ho sempre preferito le prime con la classica pedalata a rotazione.
Era difficile trovare disponibili quelle buone. Molte erano pesantissime e le catene non erano oliate a dovere.
Quindi spesso accadeva che si doveva attendere il ritorno di qualche altro bambino che poi non voleva mai scendere. Finalmente potei mettere il sedere nell'abitacolo e le mani strette al volante di una fiammante, ai miei occhi, Lancia Fulvia. Era rossa e con i fari grossi.
Mi ci sentivo bene.
Dopo le interminabili prediche di mia madre sono partito.
Aveva pagato per mezz'ora ma il tempo non contava.
Mi sono mosso per un pò lì intorno ma c'era molto traffico, biciclette, altre automobiline, bambini urlanti, pedoni, quindi decisi di allontanarmi un pochino in direzione della fontana circolare, di girarle attorno e poi rientrare. Mano a mano mi allontanavo, gli schiamazzi si attutivano e cominciavo a sentire le fronde degli alberi, gli uccelli, le anatre nell'acqua ed ho cambiato marcia. Intesa come velocità, il motore erano le gambe e non era provvista di cambio.
In prossimità della terza curva della fontana si apriva un cancello che conoscevo bene, conduceva in strada, dove c'era una rotonda vera e tenendo la destra ci si immetteva nella strada che portava a casa nostra quando eravamo in Italia. Mi è sembrato normale imboccare il cancello e mischiarmi nel traffico, tenendomi ben a destra, ma ho subito compreso che la mia velocità non era simile a quelle delle auto grandi e vere che mi sfioravano, minacciandomi con i loro clacson e i fanali enormi all'altezza dei miei occhi. Decisi quindi che la cosa migliore era quella di girare tutto intorno alla rotonda e rientrare in giardino. L'automobilina oltre a non avere il cambio disponeva di una retromarcia complicata e con le mie gambe lunghe già allora sarebbe stato un problema.
Spingevo sui pedali sorpassato da cinquecento rumorose, da millecento seriose, da furgoncini a tre ruote. Non me ne curavo, io guidando benissimo, facevo la mia strada sperando che girando girando arrivasse nuovamente la visione del cancello dal quale ero uscito.
Purtroppo arrivai ad un punto che per quanto spingessi con le gambe sui pedali non avanzavo di un centimetro. Un signore alto, vestito di blu scuro con un pesantissimo casco bianco aveva afferrato la maniglia, quello che oggi chiamiamo rollbar, e aveva bloccato il mio viaggio. Mi guardava molto male e non capivo il perchè, stavo tornando, facevo tutto per bene, mi infilavo negli spazi senza disturbare nessuno.
Lui riconobbe il mezzo e comprese da quale garage ero uscito. Mi portò sul marciapiede, cosa che allora non capì e mi fece pedalare per una strada più lunga. Ricordai mia madre che mi diceva spesso di non seguire gli sconosciuti e mi domandavo cosa fosse più giusto fare. Ma vedendo gli alberi, il muro e dopo poco in lontananza la fontana, mi resi conto che stavamo tornando da dove ero partito.
Tutto questo viaggio, senza rendermi conto, era durato circa due ore e quando tornammo alla stazione di partenza, mia madre non c'era, era andata in giro a cercarmi temendo che fossi caduto nel laghetto della fontana.
Ma non c'erano segni di frenata, piume di anatre investite e quindi tornò sui suoi passi trovandomi sotto lo stretto controllo di quello che poi ho capito fosse un vigile.
Non vi dico cosa accadde, solo che la successiva volta per le mie mani intorno ad un volante passarono 16 lunghi anni, disponevo del cambio, della retromarcia e di un pezzo di carta rosa con la mia fotografia.

Ma quella Lancia mi è rimasta per sempre nel cuore.

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